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Intervista e presentazione libro "I'm waiting here"

date » 10-02-2014 15:22

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Intervista a cura di Maria Capone (NewEspressioneLibri)

Come e quando nasce la sua passione per la fotografia?
L’interesse per la fotografia nasce nel 2006, in occasione di un viaggio culturale a Berlino. Il desiderio di costruire di quel viaggio una memoria fotografica importante mi spinse all’acquisto della mia prima reflex, una sony alfa100.
“I’m waiting here” (Io aspetto qui). A che cosa si ispira il titolo del suo libro?
Dare il titolo al progetto fotografico è stato l’aspetto più complicato del lavoro. Quasi sempre il titolo dovrebbe dare un’indicazione di massima sul tema sviluppato, ma nel mio caso questa regola non è stata rispettata. “I’m waiting here”, riassume le mie lunghe attese nei pressi delle pensiline, alla ricerca dei momenti più adatti per realizzare gli scatti, secondo le regole tecniche e progettuali scelte.
É il suo primo lavoro fotografico? Come nasce l’idea di questo progetto?
E’ il mio primo libro fotografico auto-prodotto, ma non il mio primo lavoro. Ho realizzato altri progetti prima di “I’m waiting here”, sicuramente meno impegnativi di questo. I miei lavori sono pubblicati sulla mia pagina personale www.mariocapriotti.it
L’idea nasce con la realizzazione di una mostra fotografica collettiva proposta nel maggio del 2013 a Brindisi , dove ad esporre oltre al sottoscritto c’erano altri aspiranti autori dell’Associazione Fotografica INPhoto di Brindisi. In quella occasione ho esposto soli undici scatti del lavoro presentato nel libro. La scelta del tema nasce invece dall’interesse personale maturato dallo studio delle sottoculture giovanili del ‘900, fenomeno sociale sviluppatosi soprattutto nei paesi anglosassoni e in America, e del loro modo di comunicare ed esprimere i propri disagi sociali, riportando poi il tutto alla mia esperienza di vita.

Bernd e Hilla Becher ci hanno lasciato un’importantissima testimonianza dell’architettura industriale in Europa e America, quanto della loro visione artistica ha influenzato le sue scelte artistiche e fotografiche?
I coniugi Becher, con la loro esperienza, hanno dato un contributo importante per la definizione e costruzione di quella che è l’attuale grammatica del linguaggio fotografico.
Ho scelto di realizzare il lavoro presentato nel libro con un approccio documentaristico frontale, descrittivo e seriale, ispirato agli insegnamenti di Bernd e Hilla Becher, o come anche quelli di altri autori, dai Nuovi Topografi americani al nostro Guido Guidi.

Nelle fotografie di Bernd e Hilla Becher vengono fotografate strutture architettoniche e oggetti per rappresentarne la loro forma, non la loro esteriorità. Lei, invece, vuole rappresentarci la loro esteticità defraudata, ciò che ne rimane dopo un atto vandalico. Quale è il nesso tra la sua espressività e quella dei due fotografi tedeschi?
Il nesso con il lavoro dei coniugi Becher sta proprio nell’avere scelto, per la rappresentazione fotografica del mio lavoro, le loro regole e il loro approccio visivo e prospettico. Per il resto, il fine ultimo del lavoro proposto, è quello di evidenziare la relazione contrapposta tra estetica dell’oggetto fotografato, che nasce come pensilina di attesa dell’autobus, e l’etica e l’utilizzo diverso che invece ne fa una sottocultura urbana, scegliendolo come “lavagna” per comunicare il proprio disagio sociale, attraverso atti di puro vandalismo.
Quando arriva la foto migliore?
Per quanto mi riguarda non c’è una foto migliore di un’altra, c’è sicuramente un progetto più impegnativo di un altro o che in qualche modo mi ha coinvolto emotivamente più di altri progetti, per esempio il lavoro dedicato a mio padre (“La Rosellina”).
Sono convinto che una foto da sola non possa dare alcuna indicazione esaustiva su quanto l’autore vuole comunicare o esprimere attraverso essa. Il linguaggio fotografico, se utilizzato bene, ti da la possibilità di fare “discorsi fotografici”, ma per fare ciò non basta una sola foto. Posso sicuramente affermare che fino ad oggi “I’m waiting here” è stato il mio progetto più impegnativo da un punto di vista progettuale.

Il momento dello scatto è la fase finale di una lunga ricerca? Oppure?
In alcuni casi il momento dello scatto è un istante, nel vero senso della parola. Se si pensa al lavoro dei più grandi autori impressionisti del XX secolo, tra i quali Henri Cartier Bresson, sicuramente si può affermare che la forza delle loro foto, oltre ad una lunga ricerca e maturazione di una visione fotografica, sta nell’istante dello scatto, nell’intuizione e nella spontaneità. In alcuni casi, come per i coniugi Becher, lo scatto è il risultato di una lunga ricerca e di una progettazione davvero attenta ai dettagli e come dicevi prima alle forme. Per il mio lavoro ho scelto di realizzare gli scatti dopo avere fatto molti sopralluoghi per definire la scelta e le condizioni ambientali del momento più opportuno per fotografare.
Secondo lei c’è sempre un rapporto tra immagine e scrittura?
Sono convinto che l’essenza della fotografia è quella di arricchire, sostenere e valorizzare temi e discorsi multidisciplinari. Per fare degli esempi concreti, in campo medico- scientifico la fotografia ha dato molto in questo senso, o nella fotografia di reportage, dove la testimonianza fotografica delle atrocità delle guerre o delle condizioni di vita sociali dei paesi del terzo mondo hanno contribuito, insieme agli articoli e racconti di grandi giornalisti, a formare l’opinione pubblica dei paesi occidentali. Molti giornalisti hanno pubblicato lavori facendo uso di entrambi i linguaggi, della scrittura e della fotografia, un esempio su tutti Tiziano Terzani.
Quali messaggi possono essere nascosti in determinati atti vandalici che rovinano l’estetica di un oggetto, o un bene della comunità?
Storicamente, le sottoculture urbane o giovanili nascono in contrapposizione alla cultura dominante, e questa frattura sociale tra le due culture è stata da sempre oggetto di studio in ambiti multidisciplinari. Le sottoculture urbane, nel momento in qui si danno un’identità propria , cercano in vari modi di esprimere i motivi di tale frattura con la cultura contrapposta e lo fanno colpendo o svuotando di significato i simboli della cultura madre. Ovviamente questo è un discorso che merita ampia discussione ma, nel caso del mio lavoro, la sottocultura urbana ha voluto esprimere il proprio disagio sociale imbrattando uno dei simboli urbani di una cultura che si contrappone ad essa.
Qual è il suo sogno nel cassetto, professionalmente parlando?
Sono un fotoamatore, ma non nel senso di un fotografo non professionista. Il fotoamatore, come inteso e argomentato dal sociologo Barthes, è colui che ama e studia la Fotografia, ma questa figura è molto più complessa della semplice e riduttiva figura di un fotografo che realizza scatti non essendo un professionista. Il fotoamatore è anche colui che si nutre di cultura della Fotografia, anche senza necessariamente realizzare scatti, ma è anche colui che ama semplicemente farsi fotografare. Il fotoamatore è un ricercatore, fortunatamente distaccato dalle logiche di mercato che spesso dettano le regole per molti professionisti. La figura per la quale mi sento di appartenere oggi è quella del fotoamatore e aspirante autore. Il mio sogno nel cassetto è quello di riuscire davvero a imparare il linguaggio della Fotografia e riuscire a farne un uso sapiente e costruttivo per la società nella quale vivo.

Per leggere la presentazione completa del libro clicca sul link

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